Davvero la contrapposizione è Nord-Sud? Il disagio è una questione territoriale o riguarda una forbice ampia tra chi ha troppo e chi quasi più nulla? Probabilmente pensarla da anti-meridionalisti è solo un ballon d’essai. Un titolo così, sparato a tutta pagina da Libero,e l’orgoglio sudista è ancora una volta schizzato a molla, come un cane sulla palla appena lanciata o un Salvini davanti a un barattolo di Nutella. Come se non bastasse, poi, i più indignati di tutti sono apparsi quelli che hanno in Pino Aprile il loro portabandiera e vedono in lui l’alfiere della migliore diversità meridionale.
Ma allora siete cretini? si è chiesto, furbo, Vittorio Feltri.
Non è stato forse «l’ottimo esponente del giornalismo meridionalista» — ha spiegato — a sdoganare quel termine «terroni», a farne un titolo di un libro di successo e un pezzo della vostra, per carità, rispettabilissima identità?
Cornuti e mazziati, allora. E ben ci sta.
Questa storia conferma, così, più cose. La prima, che certi polentoni sono più scafati di noi, perché al momento buono, dopo aver puntato la luna, sanno sempre come uscirne, magari, come in questo ca- so, giocando con le parole e facendoti credere che era la punta del dito che dovevi guardare. La seconda, che a considerarli più di tanto è da semplicioni, perché a non prendersi sul serio sono per primi loro. In fondo, ci hanno spiegato che con quel titolo volevano solo fotografare una situazione, giacché è incontestabile che i meridionali sono ovunque nello Stato, in tutti i posti di comando, nelle istituzioni e nei Palazzi che contano.
Ma ecco il punto. Se è così, ed è cosi dal tempo di Depretis e di Crispi, perché ti- rarla fuori oggi, questa storia? Carichi di sensi di colpa e feriti nell’orgoglio, sempre quello, noi terroni abbiamo subito creduto che dietro ci fosse un non detto, qualcosa del tipo: se le cose vanno male in Italia la colpa è vostra, di voi meridionali.
Ma loro giurano che così non è. Che lungi da loro pensieri così bassi e meschini. «È operazione disonesta strumentalizzare la parola vergata in un titolo per attaccare chi ha scritto un pezzo e il giornale che lo ha pubblicato, non prendendo in considerazione il concetto, ossia il senso.
Poi c’è la deriva delle differenze.
ll colore della pelle, la residenza nativa e quella anagrafica, il tifo calcistico, la differenza di età e di
ceto, il tatuaggio che si indossa o si aborrisce, il sesso e il genere, la plebe e l’élite, il popolo e i radical chic, il partito e il sindacato, e tanto altro ancora: si elevano nella nostra mente e nei nostri comportamenti piccoli e grandi muri, barriere invalicabili per quanto anche immateriali, i social ci assolvono nella nostra presunzione di contare perché uno è uguale a uno e, quindi, per la possibile sottrazione, zero è uguale a zero. Vomerese? Napoletano? Campano? Meridionale? Italiano? Europeo? Cittadino del mondo? Chi sono? Sempre più me lo chiedo ad ogni episodio – e sono tanti, ahimè! – che mi spiazza perché vorrei pensare in un modo, ma mi rendo conto che potrebbe esserci qualche ragione anche in quello opposto. Prendete questa litania del pregiudizio verso i napoletani, forse la più innocua tra le manifestazioni di intolleranza. Io, se parlo con quelli che hanno il pregiudizio, replico esibendo tutta intera la mia napoletanità, sottolineando le luci magnifiche e leggendarie che natura, storia, cultura e tradizioni assegnano alla mia gente, ma poi se discuto con i miei conterranei sostengo tesi talvolta perfino più dure nella sostanza dei «razzisti» antinapoletani, perché in questa «terra mia» ci vivo e ne soffro le carenze e però, come la mamma con il figlio, ne posso parlar male io, ma non consentire ad altri di farlo.
Tanti anni dopo è stucchevole che si riproponga questo ritornello. Ma occorre essere coscienti del mutamento profondo, politico, sociale, storico e culturale che è avvenuto e di come sia in atto, non solo in Italia, una rivolta del popolo contro le élite (non solo gli intellettuali) che hanno governato ritenendosi insostituibili. In questo scenario, tempestoso e inedito, trova spazio e nuova linfa l’intolleranza che al primo gradino si manifesta con la diffusa consuetudine di non discutere: tu dici bianco io dico che è nero, e se non sei d’accordo con me sei un venduto o uno stronzo. E meno male che questo «dibattito» avviene per lo più via rete, altrimenti… Servirebbe ripartire dai fondamentali, dalla cultura, da quel sano confronto, non disgiunto da umiltà e autocritica, che va sotto il nome di dialettica e che può consentire alle maggioranze di
non prevaricare e alle minoranze di non essere emarginate.
Che dire tornando a Napoli? Per esempio, che le cose non vanno tanto bene e che fare sempre le vittime non aiuta, che essa è un luogo straordinario e che non ce ne sono uguali al mondo, che indignarsi per le offese esterne non serve e che è meglio replicare con le buone pratiche, che, per capirci fino in fondo, uno juventino non è per forza un ladro o che un torinese non deve risarcire il danno di un’Unità che poteva anche andare diversamente, o che un rozzo veronese che invoca il Vesuvio si qualifica da solo, che la secessione è un disastro ma un po’ ce la siamo cercata…
E direi più o meno le stesse cose a Milano se fossi un milanese perché sono anche italiano, e guarderei all’Europa e al mondo senza paraocchi perché mi ricorderei che solo per un caso sono nato nei pressi del magnifico Palazzo Reale di Quisisana, borbonico sì ma ora italiano.
Come insulto la parola «napoletano» è parsa la sintesi migliore per i tifosi avversari. Fatti che non fanno da soli una tendenza storica ma fanno pensare che qualcosa si è inceppato e che, senza cadere in un vittimismo troppo facile e comodo, gli antichi pregiudizi di quei cartelli «non si affitta ai meridionali» di quell’Italia che si stava rimettendo in moto negli anni Sessanta vengono ripresi ora in una versione più diretta, nel tempo degli insulti sintetici e veloci, la parola «Napoli» sembra racchiudere molte cose negative in sé. E le cose negative sono molte, non bisogna essere indulgenti se si pensa alla camorra o ai pezzi di città senza regole. Ed è questa la schizofrenia: questo accade mentre i libri di Elena Ferrante e di Maurizio De Giovanni guidano le classifiche di lettura in tutto il Paese. Mentre alla tv milioni di telespettatori restano incollati a vedere la serie dell’Amica Geniale. Dove sta la trappola? Dov’è l’errore? Sono due mondi diversi che non si conoscono e che non si conosceranno mai? Oppure in questo tempo fluido qualcuno può contemplare Caravaggio a Capodimonte e poi dire «sei un napoletano» per insultare il prossimo? La risposta non la conosco, anche se vivendo a Milano da ormai 31 anni, ho osservato che la curva degli insulti ha una natura ondulatoria. Per certi versi inspiegabile. Affiora, torna giù. Scompare. Ricompare. Ma questi pregiudizi e il razzismo geografico restano inaccettabili. E forse una risposta può arrivare proprio dalla bellezza e dalla storia delle città. In un tempo in cui sembra facile condividere tutto, soprattutto questo pezzo di realtà andrebbe condiviso come antidoto contro la maleducazione, l’ignoranza (nel senso di non conoscere) e il razzismo di ritorno.